«Suburra», un polpettone di film


Suburra, il film su Roma e il suo potere segreto, più che un affresco che ricorda Mafia Capitale sembra un B-movie per anziani statunitensi che non ci hanno mai messo piede.

di A. Amorosi su Libero Quotidiano nazionale del 23 ottobre 2015 a pag. 29

 

Nell’attesissima coproduzione da 7 milioni di euro di RaiCinema, Netflix e Cattleya con alla regia Stefano Sollima, si vedono cose che le grandi produzioni non avevano ancora tentato. Un’ottima ricostruzione degli ambienti, una fotografia smagliante, bravi attori e un’efficace mano alla macchina da presa. Elementi che cozzano prepotentemente con una sceneggiatura strampalata, piena di personaggi privi di credibilità narrativa. Pensata forse per il coatto scimmiottato magistralmente da Carlo Verdone un decennio fa.
Tutto parte dalle viscere di Roma in un conto alla rovescia verso l’Apocalisse, la caduta nel 2011 del governo Berlusconi. L’approdo è il progetto Waterfront, la cementificazione di Ostia per trasformarla in Las Vegas. Un sogno dei poteri criminali, dal politico cocainomane di centrodestra che vive di orge (anche con minorenni) alla famiglia zingara gangster, dal piccolo boss di periferia alla Chiesa, fino a un reduce della Banda della Magliana, il più temuto rappresentate della criminalità romana e raccordo di tutte le mafie.
Lui, il mitico Samurai che sembra tanto rievocare la figura di Carminati ma in versione fantasy. Non ha aiutanti. Nella truce guerra tra bande si muove senza guardaspalle e viene ucciso come un pivellino da una tossicodipendente perennemente strafatta. Una disperata dall’alto spessore criminale. Altro personaggio irrealistico, tanto più nel crimine organizzato romano. E che se può esistere tra i Casalesi ha tutt’altra stoffa.
Poi c’è il clan degli zingari Anacleti che ricorda quello dei Casamonica. Anche qui, in mezzo alla guerra il capo viene ucciso da un pierre traffichino smunto come Charlie Chaplin che agisce indisturbato in un truce e complesso disegno. E che dire della scena dei killer che si inseguono sparandosi all’impazzata in un ipermercato romano tra la gente che fa la spesa? Chi se l’è immaginata aveva mangiato pesante? O si era fumato un cannone? Che a Roma possano accadere cose del genere ci crederanno forse gli Amish nel Kentucky. E Suburra non è un film alla Tarantino, con venature metafilmiche ironiche o surreali. Le atmosfere sono livide, cupe, inospitali. Con tanto di musica alla Vangelis pompata al massimo a riempire il vuoto narrativo. A suggerire furbescamente allo spettatore le emozioni da provare più che a trasmettere quelle dei personaggi.
Alcuni dei quali sono buttati lì, non si sa che fine fanno. La escort d’alto bordo prigioniera del clan zingaro. Il figlio del deputato preso in ostaggio. Scomparsi. Forse risorgeranno come Lazzaro nel serial di 10 puntate che Netflix sta preparando? E i dialoghi ritriti in romanesco biascicato? E le scene prive di nessi in cui si ammicca alle dimissioni del Papa e agli affari dei Cardinali? E che dire del politico corrotto («Chi se ne fotte della Magistratura… io sono un parlamentare»)? La sagra del politically correct de sinistra de ’noantri.
A confronto Romanzo Criminale di Placido pare Quarto Potere di Orson Welles. Peccato. Suburra è un vero pasticcio e nasconde proprio l’elemento di novità di Mafia Capitale: la trasversalità del potere criminale tra alto e basso, destra e sinistra, coop, potere politico, magistrati ricattati, forze dell’ordine, mafie, grande e minuta burocrazia. Per fortuna, però, c’è qualcuno a cui il film è piaciuto. Ad esempio il neo consigliere Rai Carlo Freccero che lo ha definito «un gioiello, un riuscitissimo un film sul potere». A Roma piacendo.

3commenti
  1. Roberta

    27 ottobre 2015 at 01:26

    concordo. Altro non mi sento di dire, perchè sarei ancora più ‘astiosa’. Astio, ecco questo provo nei contronti di questi compiaciuti esercizi di stelle, pessimo per altro. Grazie.

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  2. Alessandro Simonini

    3 novembre 2015 at 13:30

    La sua critica al film vale quanto quella di Freccero o di chiunque altro, ovvero uno. A me è piaciuto. Si ricordi anche che un film non è un reality e dunque l’iperbole è ammessa. Qui non c’è n’è molta. La realtà fa probabilmente più schifo. Ma le ha sentite le storie di gente reale costrette a pagare il pizzo? Io si è non sono storie per americani.

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    • Antonio Amorosi

      Antonio Amorosi

      10 novembre 2015 at 13:19

      @Alessandro Simonini Grazie del commento però chiedo… lei ha letto cosa c’è scritto nell’articolo? Qui non si tratta di piacere. C’è a chi piacciono le lasagne, a chi i tortellini, a chi le trenette con il pesto o la pasta e piselli. La scena dei killer che si inseguono sparandosi all’impazzata in un ipermercato romano tra la gente che fa la spesa può essere portata a simbolo del film. La puoi fare, certo. Casomai anche con dei condor che si aggirano nel cielo per dare un pò di senso del western e degli alligatori a terra che scoreggiano per l’ipermercato che danno quello dell’orrore. Tutto si può fare. Non ho citato Petri, Scorsese o Lumet. Ho citato anche Tarantino, che resta un genio con le sue opere, che non fa film da reality né usa un metro di rappresentazione didascalico. Eppure. I personaggi di Tarantino sono vivi, hanno un senso. Come qui dovrebbero. Invece sono totalmente irreali o solo abbozzati. Ho scritto e ho avuto a che fare per anni di mafia e vederla rappresentata in quel modo mi fa un pò ridere. Forse è il frutto di un’amalgama non riuscita tra gli sceneggiatori che pure sono bravissimi e preparati. Ma la sintesi poi la fa il regista. E se questo è il risultato, restando in tema culinario, non tutte le ciambelle riescono… e questa mi sembra un pasticcio

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