Il più grande segreto della sinistra italiana – Ecco come e perché le coop falliscono


Nel silenzio dei grandi media ecco il più grande segreto della sinistra italiana: il prestito sociale; il prestito che i soci fanno alle coop.

Il Pd non vuole che si parli del sistema, tanto meno in tv. Le coop che sono la principale cinghia di trasmissione della sinistra raccolgono soldi anche se non sono banche e investono denaro nei mercati finanziari.

Si moltiplicano i crac nel silenzio generale.

di Antonio Amorosi su La Verità del 24 maggio 2017 – trovate tutti i dettagli del sistema nel libro Coop Connection edizioni Chiarelettere

Continuano i fallimenti e le messe in liquidazione a catena delle cooperative italiane che si aggiungono ad una sfilza già fallite. Come è stato possibile arrivare a tanto?
Perché al centro di questo mondo c’è una parolina magica che si chiama «prestito sociale». Non a caso il «prestito sociale» è la prima voce che sparisce quando una cooperativa fallisce. Amaramente lo stanno scoprendo anche i soci lavoratori. Ma non fateglielo capire più di tanto perché, prelevando prima del fallimento il proprio denaro, potrebbero far crollare tutto il sistema.
Nel Belpaese le coop vengono utilizzate come fossero banche. Ci hanno raccontato per anni che non perseguono il profitto capitalistico come tutte le altre forme di società ma un’attività mutualistica e solidaristica. Così i contribuenti invece di portare il proprio denaro in banca hanno preferito depositarli nelle cooperative, dove da sempre lavorano alimentando appunto il «prestito». Oggi è il più grande buco nero d’Italia, la cassaforte intoccabile da ogni autorità e che fa parte del disegno di egemonia che la sinistra italiana ha praticato per anni, in un intreccio spregiudicato tra economia, pezzi dello Stato, grandi media, banche, partiti come il Pci-Pds-Ds-Pd ed epigoni. E per questo le storie dei fallimenti non hanno diritto ai principali palcoscenici dei media nazionali. Il gioco deve continuare.

 

L’economia complessiva della cooperative italiane è di 151 miliardi di euro annui: più grande del Pil di interi stati europei come l’Ungheria o di Slovenia, Croazia e Bulgaria messe insieme (l’8 per cento del Pil italiano), a cui va aggiunta l’economia della controllata Unipol, la seconda assicurazione del Paese. Le cooperative non si muovono come tante imprese, le une separate dalle altre, ma come un organismo unico con strategia univoca, guidata dalle centrali come Legacoop o Confcooperative che decidono quali coop sostenere o quali salvare in caso di crisi.
Ma già è strano che una cooperativa fallisca. Perché a differenza delle altre forme di società, tassate realmente allo spasimo, le cooperative pagano tasse solo su una parte molto minore dei ricavi. A fine anno, un primo 30 per cento finisce in una riserva indivisibile e diventa capitale dell’azienda, un altro 3 per cento è destinato a fondi mutualistici, che le centrali cooperative utilizzano per investimenti. Le tasse vengono pagate poi solo sul 65 per cento dei ricavi per le Coop di consumo (i supermercati), sul 40 per cento per le Coop di lavoro ed edilizie, sul 20 per quelle agricole e zero per le Coop sociali tipo la 29 giugno di Salvatore Buzzi di Mafia Capitale. Come si fa a fallire con una tassazione del genere? Accade perché perché il gioco economico si regge spesso sulle operazioni finanziarie messe in moto proprio col «prestito sociale» che fa da massa di capitale e dagli intrecci con la politica.

 

Ma la raccolta del risparmio è vietata a soggetti diversi dalle banche, perché non hanno coperture adeguate. Ci sono però eccezioni, stabilisce Banca d’Italia: appunto le coop. Una ricerca del 2014 di R&S Mediobanca sui supermarket Coop, spina dorsale del sistema, spieghi l’arcano: dove finiscono i soldi. La somma che gli italiani hanno depositato nel 2014 solo nelle Cooperative di consumo aderenti a Legacoop ammonta a 10,8 miliardi. Le Coop di consumo non ricavano i loro principali utili dalla vendita delle merci sugli scaffali ma dalla finanza. Solo nel triennio 2009-2013: ricavano 249 milioni di euro dalla vendita delle merci e 889 milioni dall’attività borsistica. Tre volte e mezzo in più dei ricavi di quella che dovrebbe essere la loro principale attività industriale che diventa di fatto secondaria. E parliamo di colossi come Unicoop Firenze, Coop Adriatica, Coop Estense, Unicoop Tirreno, Coop Lombardia, Novacoop, Coop Nordest, Coop Liguria, Coop Centro Italia, Distribuzione Roma e Ipercoop Sicilia. Sei di queste undici coop hanno chiuso il 2013 con una gestione in perdita, ma col contributo della Borsa sono risalite. A questo serve il «prestito sociale»

 

Ma ricordiamolo: le coop hanno tutti i loro benefit fiscali non per volere di Dio ma per la particolare configurazione societaria: le cooperative non svolgono attività di profitto ma mutualistiche e sociali. Dunque non possono andare in Borsa, dove si fa profitto. Lo fanno lo stesso creando società esterne che controllano, come la semisconosciuta Simgest Spa, con sede di fronte alla stazione di Bologna, che con i propri broker fa intermediazione di titoli in Borsa. Chi controlla o sanziona questa attività vietata? Nessuno. Se contattate l’organismo di controllo sulle coop del Mise, il ministero dell’economia, scoprite che non si ritiene competente su queste verifiche. La Consob risponde altrettanto. Banca d’Italia afferma invece di non avere i poteri per eseguirle ma che c’è un buco normativo che dovrebbe riempire la politica. Per Banca d’Italia le cooperative possono raccogliere denaro, ma è vietato farlo «a vista». Peccato che le cooperative lo facciano proprio a vista. Basta entrare in qualsiasi supermarket e aprire un libretto. E tutto può continuare come prima. Chi, dopo i fallimenti alza la testa e, protesta è un’ eccezione. Perché il dipendente di una cooperativa, che ha messo i suoi risparmi nel «prestito sociale», sa che la protesta gli ostacolerà la possibilità di essere ricollocato, come spesso accade, in una cooperativa consorella, tanto più nelle regioni rosse dove le coop dominano.

 

La politica dovrebbe intervenire. Appunto. Per capire come basta ascoltare l’ex capo di Legacoop, ora ministro, Giuliano Poletti in un convegno del 2010 passato inosservato, «Cooperare per cambiare» preparativo al 38° Congresso dell’organizzazione. Poletti l’ha spiegata meglio di tutti cosa sono le cooperative. Ad un certo punto racconta perché nella realtà non si sia mai capito nulla della loro realtà. Perché le cooperative non sono «correttori dei fallimenti del mercato e del capitalismo». «E’ una cazzata totale» pensarlo. E aggiunge: «Noi non siamo alternativi ma concorrenziali» e «se vinciamo prendiamo il 51 per cento dell’economia italiana». Ecco. Vincendo facile. Violando ogni regola, senza controlli e con gli altri con gambe e piedi legati.

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