L’italiano che combatte l’Isis in prima linea coi curdi


 

C’è un italiano che ha deciso di combattere l’Isis in prima linea. Casa per casa, villaggio dopo villaggio, scontro dopo scontro. Tra sangue e bombardamenti, caos e rovine. Nell’attuale Kurdistan siriano al confine con la Turchia. E’ Karim Franceschi, un ragazzo cresciuto a Senigallia, la paciosa cittadina marchigiana in provincia di Ancona de Una rotonda sul mare di Fred Bongusto. L’unico volontario italiano della resistenza curda in Siria.

Franceschi è nato a Casablanca, 26 anni da compiere nel marzo prossimo, ed è figlio di padre italiano, ex partigiano, e madre marocchina. Franceschi «è un ragazzo normalissimo, magari un pò agitato ma come tanti» ci dice un ex compagno di scuola preoccupato per le sorti dell’amico. Franceschi ha 7 anni di pugilato allo spalle, tanti lavori precari, uno anche da agente immobiliare. Esperienze che non si sa come lo aiuteranno tra le trincee di fuoco della città di Kobane. Non ha mai imbracciato un’arma. Mai partecipato ad un conflitto a fuoco.

Scrive in una lettera del 7 gennaio i motivi della sua scelta. «Per difendere i miei ideali di libertà, giustizia e uguaglianza che non hanno confini nazionali e culturali». Le parole vengono rese pubbliche solo qualche giorno fa dai «compagni» del Centro Sociale Arvultùra di Senigallia, dopo che Franceschi ha superato clandestinamente il confine turco. Si perché Franceschi è un attivista no global. «Un ragazzo sincero» come lo descrive una conoscente, «anche in tutte le sue scelte estreme e poco condivisibili».

Oltre ai 3-5mila foreign fighers, partiti dall’Europa per combattere a fianco del Califfato dell’Isis (53 sono italiani come ha dichiarato il Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) c’è chi ha deciso di darsi da fare per «difendere i deboli e fare la guerra alle barbarie degli jihadisti».

Tutto nasce dal viaggio di solidarietà organizzato dai centri sociali delle Marche per portare medicine e vestiti alle popolazione delle città di Suruc e Kobane, al confine tra Turchia e Siria. Al ritorno il ragazzo racconta dei bambini sgozzati dagli jihadisti o con le mani tagliate. S’innamora della gentilezza dei curdi. «Sono rimasto sorpreso quando ad una mia affermazione, in cui distinguevo la politica dalla guerra, l’ex governatore del cantone di Kobane mi disse: la guerra è politica» scrive nella lettera.

Avviene un cambio radicale nella sua coscienza e scrive che «qualunque sforzo al di fuori di quello militare, per quanto nobile e condivisibile, rischia di limitarsi semplicemente a tamponare il sangue senza però curare la ferita». Allora decide di partire per l’addestramento e combattere. «Essere un rivoluzionario per me significa stare là a condividere la resistenza, guardando in faccia la realtà senza distogliere lo sguardo, sconfiggendo la paura».

Al fronte lo chiamano Marcelo. Incontra anche una giornalista di Vanity Fair, Imma Vitelli, e le racconta «che non gli piace un mondo in cui i bambini combattono e gli uomini restano a guardare». Non si lagna. Non parla del sangue, freddo, fango, mancanza di acqua. Apprende la disciplina delle armi e la cultura dei curdi che prima di un’operazione militare ti abbracciano e ti dicono: «Ti rivedo». E spiega perché è li. «Non per morire per Kobane, ma per quello in cui credo»

di Antonio Amorosi per Libero Quotidiano nazionale del 13 febbraio 2015 pag. 11

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